Marco Mamone Capria


Antispecismo, ricerca biomedica e “Stop Vivisection”


Esseri senzienti 1

Utilitarismo 2

Il cosiddetto benessere animale 2

“Invece” della vivisezione 3

Posti di lavoro 3

Riconversione 4

“Stop Vivisection” o la democrazia dimezzata dell'Unione Europea 5

NOTA 6



Specismo” è, come è noto, un termine esemplato su “razzismo”. Il razzismo è la discriminazione di esseri umani sulla base della loro appartenenza a una certa “razza”. Lo “specismo” è la discriminazione di animali sulla base della loro appartenenza a una certa specie. Che l'analogia lessicale sia imperfetta, in un senso importante, lo si capisce dal fatto che nel primo caso è corretto mettere il termine chiave tra virgolette, mentre nell'altro no. Questo perché mentre la nozione di “razza umana” è scientificamente poco solida, e senz'ombra di dubbio incapace di sostenere generalizzazioni significative da un punto di vista etico, quella di specie animale è tuttora fondamentale in biologia, e si trova presentata in ogni testo universitario sulla materia. Invece, alla storia del concetto di razza umana un antropologo statunitense ha potuto dedicare un libro erudito e competente con un titolo ironico che in italiano suona: «“Razza” è una mala parola».

Esseri senzienti

A meno che non si voglia essere attaccati immediatamente con le solite obiezioni stantie (“Un antispecista deve difendere anche i batteri?”), l'antispecista deve fissare un insieme di caratteristiche di un essere vivente che lo rendono direttamente rilevante sotto il profilo etico. Dico “direttamente” perché è evidente che si può desiderare, o anche imporre per legge, il rispetto di qualcosa anche se non si pensa che i danni infertigli calpestino un suo interesse. Nemmeno il più grande ammiratore della “Gioconda” di Leonardo da Vinci penserebbe che un vandalo che la danneggiasse farebbe soffrire il quadro: farebbe, piuttosto, soffrire gli appassionati di arte rinascimentale – e i responsabili del Museo del Louvre. Analogamente, chi si astiene dal cogliere fiori in certi ambienti naturali lo fa per proteggere un certo ecosistema e conservarne la bellezza: è improbabile che pensi che altrimenti causerebbe sofferenza alle piante.

D'altra parte, che cani, cavalli, gatti, scimmie, maiali, mucche, pecore, agnelli, vitelli, conigli, topi, polli ecc. abbiano reazioni assimilabili a quelle che nei rapporti interumani si considerano direttamente rilevanti sotto il profilo etico (il provare dolore e piacere, fisico o mentale) è qualcosa che chiunque abbia avuto la minima familiarità con essi non oserebbe negare (a meno, inutile dirlo, di non avere un tornaconto a farlo). Sono esseri non solo viventi, ma senzienti. Non credo invece che per altre specie animali o vegetali (come batteri e funghi) ci sia da preoccuparsi nello stesso senso. In particolare chi obietta ai vegetariani di essere insensibili al dolore delle piante di carciofi o di mele può riuscire al massimo a farsi apprezzare come umorista demenziale.

Recentemente, ricerche in un settore suggestivamente denominato “neurobiologia vegetale” (l'autopromozione è importante anche nella scienza, naturalmente) sono state descritte come se dessero un nuovo lustro scientifico alla “vita segreta delle piante” e hanno ottenuto una notevole attenzione dai principali media internazionali, pur rimanendo fortemente controverse quanto alla loro interpretazione. A mio parere dietro questa “febbre” mediale c'è il potenziale che tali studi hanno di appannare la distinzione tra animali e vegetali e quindi di far vacillare le certezze dei vegetariani su basi etiche – una classe di consumatori il cui peso economico è in forte (e per alcuni preoccupante) crescita da anni. Non voglio dire che i lavori scientifici su cui questa vulgata si basa siano privi di valore, ma sicuramente essi non implicano che le operazioni necessarie per coltivare, cogliere e preparare in cucina un carciofo siano anche lontanamente paragonabili, sotto il profilo etico, a quelle corrispondenti al risultato finale di mettere nel piatto di qualcuno una coscia di pollo, una bistecca o un filetto di tonno.

Utilitarismo

Alcuni nel movimento animalista pensano che quanto sopra decida la questione: noi umani non abbiamo il diritto di uccidere o maltrattare animali come quelli citati, né per farne cibo né per farci esperimenti, e questo è quanto.

Ora, nonostante si ammetta ormai generalmente che i membri di alcune delle specie più utilizzate sono esseri senzienti, è tuttavia largamente diffusa, nell'opinione pubblica e a livello di istituzioni politiche, una concezione etica che permette di farne uso e disporre della loro vita, almeno sotto certe condizioni. È la concezione utilitaristica.

Secondo questa, qualora il danno complessivo (in termini di bilancio piacere/dolore) nel caso che ci si astenesse dagli utilizzi tradizionali degli animali (fornire cibo e medicinali, o “modelli” sperimentali ai ricercatori biomedici) fosse sufficientemente grande, ciò giustificherebbe il causare agli animali e agli umani coinvolti in tali utilizzi un danno complessivo ipoteticamente inferiore. Per esempio, alcuni sostengono che, a condizione che le leggi sul “benessere” degli animali di laboratorio siano rispettate, il beneficio apportato dal supposto progresso medico che la sperimentazione invasiva su di essi (o vivisezione) permetterebbe di fare, supererebbe in misura significativa il danno fisico e mentale subito dagli animali su cui si opera e dagli umani addetti a vari compiti ingrati negli allevamenti, negli stabulari e nei laboratori.

Si tratta, beninteso, di calcoli ipotetici, e nessuno di fatto si prende mai la briga di fare valutazioni precise e realistiche al riguardo. Personalmente, in estrema sintesi ritengo che 1) l'utilitarismo abbia una sua limitata validità in sede teorica, ma 2) di sicuro non fornisce schemi decisionali univoci in molte delle più importanti questioni morali.

Ciò nonostante, l'utilitarismo resta una parte importante della concezione etica (non del tutto coerente) che prevale oggi nell'opinione pubblica. In termini concreti, quasi nessuno (nel senso delle percentuali dell'“elettorato” di riferimento), a cui si faccia apparire un esperimento su animali come condizione necessaria e sufficiente di un progresso medico sufficientemente importante, gli negherebbe il proprio assenso – sia pure a malincuore e dopo assicurazione del “miglior trattamento possibile” (?) per gli animali coinvolti. D'altra parte quasi nessuno, nel caso che avesse seri dubbi sulla produttività medico-sanitaria della vivisezione, sarebbe disposto a considerarla lecita.

I termini reali della questione, da un punto di vista politico, sono questi, ed è improbabile che si riesca nel futuro prevedibile a far diventare maggioritaria una concezione etica radicalmente non utilitaristica, come gli antispecisti vorrebbero. Non ci si è riusciti neanche per quanto riguarda gli esseri umani, e di casi esemplari e contemporanei se ne potrebbero portare molti. Ecco perché i vivisezionisti cercano solitamente di evitare di entrare nei dettagli della questione storico-epistemologica di quanto la vivisezione serva alla medicina – sanno che avrebbero solo da perderci, in quanto anche l'opinione pubblica utilitarista interpreterebbe a loro svantaggio ogni dubbio. Meglio per loro fare affermazioni categoriche prive del conforto di alcuna vera prova e millantare, per disarmare in anticipo le critiche, almeno quelle degli animalisti più ingenui, di essere i soli “veri” esperti della materia.

Il cosiddetto benessere animale

Prima di proseguire vorrei ricordare un altro fatto che i vivisezionisti si sforzano di negare nel solo modo possibile: cioè facendo finta che non esista.

Il fatto in questione è che tutte le volte che attivisti sotto copertura sono penetrati in laboratori di vivisezione hanno constatato (e, negli ultimi decenni, dimostrato attraverso video) che la vantata attenzione al benessere degli animali è solo una delle tante menzogne con cui i praticanti di questa crudele e pericolosa pseudoscienza cercano da più di un secolo di anestetizzare il pubblico. Una riprova della radicata tendenza all'illegalità dei vivisezionisti si ottiene facilmente considerando la violazione in Italia della legge sull'obiezione di coscienza, la 413 del 1993, perpetrata per vent'anni e ancor oggi dalla maggior parte dei dipartimenti universitari per i quali è rilevante. Se a questa legge fosse stata data la pubblicità imposta dalla legge stessa, probabilmente oggi in Italia non ci sarebbero laboratori di vivisezione.

Pertanto, quando una legge o una direttiva (come la direttiva europea 2010/63/UE) che regolamenta la sperimentazione animale parla di «protezione degli animali», è importante notare che nessuna garanzia potrà mai essere ottenuta su ciò che si fa 1) a porte chiuse e 2) da personaggi che hanno di regola “ben altre” preoccupazioni che fornire buone condizioni di vita a quel particolare tipo di materiale sperimentale che sono per loro gli animali reclusi nei loro stabulari.

Diciamo pure che chi si curasse realmente del benessere animale non vorrebbe nemmeno che esistessero stabulari annessi a laboratori, indipendentemente dal carattere più o meno invasivo delle “procedure” cui sono sottoposti gli animali destinati a questo o a quel progetto sperimentale.

Invece” della vivisezione

In una prospettiva utilitaristica, se si riesce a portare un comune interlocutore a riflettere sulla sorte degli animali da laboratorio, la domanda successiva che ci farà è: “Ma senza vivisezione con quali metodiche si riuscirà a far progredire la medicina?”.

Questa domanda, nonostante la sua apparente plausibilità, è ingannevole. Chi ci chiede con quali metodiche, abolita che fosse la vivisezione, si potrà far progredire la medicina sta assumendo che è grazie alla vivisezione che finora la medicina è progredita (per quel tanto almeno che lo è realmente: altra questione spinosa, non liquidabile con gli slogan pubblicitari adatti alle raccolte di fondi “per la ricerca”).

Il punto è che l'assunto suddetto è falso. La risposta giusta alla suddetta domanda potrebbe essere un'altra domanda: “Ma a te risulta davvero che con la vivisezione si è fatta progredire la medicina? Magari te l'hanno detto, ma di cose false che qualcuno ha interesse a spacciare per vere se ne dicono tante. La questione è troppo importante perché tu ti possa basare su un sentito dire, per giunta di parte”.

In effetti, quando si analizza in maniera abbastanza ravvicinata un qualsiasi reale progresso medico si scopre, di regola, che gli esperimenti su animali hanno avuto, al più, un ruolo di mosca cocchiera, quando non di fattori di confusione, fuorviamento e ritardo. Ma anche in quei rari casi in cui si può congetturare, in maniera storicamente fondata, che senza certi esperimenti su animali una certa scoperta sarebbe stata differita, in quanto gli scienziati impegnati in quel settore erano convinti credenti nella vivisezione, ciò non significherebbe che in generale la vivisezione offra una via scientificamente affidabile alla verità medica. Significherebbe solo che essa domina, o ha dominato, la psicologia della scoperta in alcuni ricercatori che hanno avuto fortuna. Decisamente non è la stessa cosa.

Posti di lavoro

Ho fatto riferimento a scienziati che siano “convinti credenti nella vivisezione”. Poiché mi occupo in maniera approfondita da una quindicina d'anni della controversia in questione, di scienziati che sono portatori di interesse in essa ne ho incontrati parecchi, direttamente o attraverso la letteratura, e con alcuni ho anche parlato in contesti confidenziali. Ebbene, checché dicano al grande pubblico o in contesti ufficiali, non ne ho conosciuto nemmeno uno che io possa, con sicurezza, definire come un “convinto credente nella vivisezione”.

Sì, ce ne sono molti che non saprebbero più che cosa fare (o far fare ai loro sottoposti) se la sperimentazione su animali fosse abolita – o, più precisamente, che cesserebbero in tal caso di “funzionare” in senso accademico come efficienti procacciatori di fondi e produttori di pubblicazioni. Sotto il profilo individuale la questione non va sottovalutata. Se a un operaio che lavora in un'industria inquinante (o, peggio ancora, all'amministratore delegato) si dice che la sua fabbrica va chiusa perché avvelena la popolazione, è naturale che egli opponga le più forti resistenze a tale provvedimento, e la sola maniera in cui può rendere la sua preoccupazione un problema anche per gli altri è mettere in dubbio la validità delle accuse.

Come si sa, questa non è un'ipotesi di fantasia: è successo molte volte, particolarmente in Italia, che non solo singoli operai o manager ma addirittura gli stessi sindacati di categoria, per non dire delle autorità governative, si siano opposti a che si facesse chiarezza sul danno ai cittadini e all'ambiente provocato da certi stabilimenti (penso per esempio ai petrolchimici e alle acciaierie, come quelli di Porto Marghera, Brindisi, Bagnoli, Taranto, Gela). Coloro i quali sollevavano dubbi sulla sanità di certe modalità di produzione erano attaccati (e tuttora avviene che lo siano in casi analoghi) come se volessero togliere il pane di bocca a onesti lavoratori sulla base di scrupoli eccessivi, se non proprio di fisime. Non si vede perché una reazione simile non ce la si debba aspettare anche dai vivisettori, quando si sentono criticare in termini che suonano di pessimo auspicio per la loro reputazione e il loro futuro professionali.

Riconversione

Non esiste dunque un problema di “che cosa fare per il progresso medico qualora la vivisezione fosse abolita”, perché ogni reale progresso medico è avvenuto sulla base di osservazioni e prove cliniche o epidemiologiche (quantunque possa essere stato, a volte, ispirato da ogni sorta di opinioni inconsistenti, fantasie o superstizioni: e questo vale non solo per la medicina, ma per ogni disciplina scientifica).

Quanto ai test di tossicità su animali, ormai tutti sanno che lungi dal costituire una tutela per i cittadini, sono un gioco d'azzardo sulla salute collettiva – quando sono applicati, beninteso, perché quasi 100mila sostanze sono state messe in commercio prima del 1981 senza aver mai superato alcun test di tossicità, né buono né cattivo. Ora, chi ha cercato di evitare il più possibile di fare test sulle sostanze che commercializzava non è esattamente il soggetto più indicato per scegliere i test più accurati e affidabili. Quindi il fatto che i rappresentanti dell'industria chimico-farmaceutica si dicano generalmente soddisfatti della continuazione indefinita dei test su animali come canone aureo (ed esercitino forti pressioni sulle istituzioni europee a tale scopo) dovrebbe indurre a qualche riflessione anche i più ingenui.

Un problema reale è invece “che cosa far fare ai vivisettori qualora la vivisezione fosse abolita”: il problema della riconversione professionale. Inutile nasconderselo: è un problema essenzialmente insolubile. È chiaro che si tratta di educare le nuove generazioni di ricercatori (ma già ce ne sono molti attivi che non sperimentano su animali), mentre è molto improbabile che chi per decenni ha sviluppato tecniche e abitudini di lavoro e di pubblicazione legate alla manipolazione di animali possa “riconvertirsi” facilmente. Anche solo adattarsi alla nuova immagine di sé che nasce dall'ammissione, pubblica o privata, di aver costruito una carriera su un inganno è più di quanto ci si possa aspettare da un normale professionista.

È per questo che l'abolizione della vivisezione non nascerà mai dalla comunità vivisezionista, legata peraltro a grossi e ben noti interessi industriali e, mediante alleanze accademiche ed editoriali, ad altre comunità di ricerca. Analogamente, non c'è mai stata, e non penso ci sarà mai, una riunione internazionale delle società astrologiche che abbia prodotto un documento finale in cui si dichiarasse che l'astrologia è una pseudoscienza (“In perfetta buona fede abbiamo ingannato l'opinione pubblica per alcuni millenni: scusateci tanto!”). Se questo punto non è compreso, è inutile, e anzi incoerente, perdere tempo a discettare non solo di metodi “alternativi”, ma anche di metodi “sostitutivi” della vivisezione. La vivisezione non va “sostituita”: va abbandonata, e il primo passo è toglierle l'avallo delle normative medico-sanitarie.

Stop Vivisection” o la democrazia dimezzata dell'Unione Europea

In altre parole, il primo passo da compiere è, oggi, di natura politica. Non credo che sia utile organizzare un ennesimo dibattito tra specialisti. Una maggioranza di ricercatori a favore e contro la vivisezione possono anche essere disposti a rassegnarsi a un “eterno” disaccordo, e lasciare, per quieto vivere accademico, che ognuno continui a fare ciò che gli pare. Sono i cittadini che non possono più aspettare che la tutela della propria salute rimanga ancora nelle mani di una classe di indovini e/o giocatori d'azzardo. Sono i cittadini che hanno il diritto di esigere che certi “autorevoli” scienziati siano portati a rispondere, anche in sede giudiziaria, delle proprie false rassicurazioni e dei danni, a volte catastrofici, che queste hanno prodotto in campo ambientale e sanitario.

Purtroppo, come la vicenda dell'iniziativa di cittadini europei “Stop Vivisection”, sebbene ancora non conclusa, sembra confermare una volta di più – mi riferisco in particolare alla risposta della Commissione Europea (CE) del 3 giugno scorso –, ci sono forti resistenze istituzionali a operare cambiamenti contrari agli interessi di certe minoranze professionali e industriali.

Nel caso di “Stop Vivisection” trovo particolarmente inquietante che la CE non abbia esitato a violare il fondamentale Principio di Precauzione previsto dalla legislazione europea. Tale principio (di cui molti cittadini europei hanno solo un'idea vaga) afferma che, in presenza anche solo di una minoranza qualificata di scienziati che attribuisca un grave rischio all'esposizione dei cittadini a certe sostanze, l'Unione Europea deve tenere in «debito conto» il parere di tale minoranza, e la mancanza di una piena certezza scientifica non può essere utilizzata «per giustificare l'inazione». L'adozione della tossicologia e farmacologia vivisezioniste nelle normative europee è appunto una porta aperta all'esposizione legale di cittadini europei a sostanze e altri agenti che invece una minoranza qualificata di scienziati, negando valore alle certificazioni di sicurezza basate sulla sperimentazione animale, considera pericolose o provatamente dannose. Pertanto, quando la CE, nella sua risposta, ha ignorato il parere degli scienziati antivivisezionisti, ha violato palesemente il Principio di Precauzione.

La questione della inaffidabilità del “modello animale” era chiaramente esposta nel testo della petizione firmata da oltre un milione di cittadini europei. La CE, nella sua risposta, ha finto di ritenere che Stop Vivisection fosse una «mobilitazione dei cittadini europei a sostegno del benessere degli animali»: nello scrivere questo essa ha aggiunto la beffa al mancato rispetto della legislazione europea.

E allora che fare? La normativa comunitaria, pur ammettendo le iniziative di cittadini europei, prevede una procedura che permette alla CE di aggirarle quanto al merito – in campo medico-sanitario come in ogni altro. Infatti non ammette una vera procedura di ricorso nemmeno contro risposte manifestamente inappropriate e “di parte” (come appunto quella di cui qui si tratta). I portavoce dell'iniziativa possono solo richiedere, e hanno reso noto che lo faranno, l'intervento della figura del Mediatore Europeo, ma l'ultima parola resta comunque alla CE. Si può solo sperare che tale mediatore (che dal 2013 è l'irlandese Emily O'Reilly) abbia volontà e capacità di persuasione sufficienti a indurre la CE a modificare la sua posizione. Ma è chiaro che ci troviamo qui di fronte a un altro dei gravi limiti della rappresentanza offerta ai cittadini dell'Unione Europea dalla vigente legislazione.

Vorrei concludere con un'osservazione generale. L'intera ricerca biomedica, in particolare in tossicologia e farmacologia, è da decenni segnata da un profondo declino di credibilità. Non è un discorso che sentirete mai fare in una serata televisiva dedicata alla medicina, ma è un fatto documentato e ormai riconosciuto nelle sedi più autorevoli. La vivisezione sopravvive in questo clima, eticamente ed epistemologicamente deteriorato. Eliminarla è un “primo gradino”, ma ricreare un'atmosfera in cui la ricerca, con qualsiasi metodica, possa dare un genuino contributo al progresso sociale è qualcosa che richiede la collaborazione tra scienziati e laici alla definizione degli obiettivi, alla sorveglianza sulle pratiche, e al controllo dei risultati.

NOTA

Per un quadro più dettagliato e per riferimenti rinvio ai miei seguenti contributi:

il seminario al Parlamento Europeo a Bruxelles tenuto il 16 ottobre 2014 per iniziativa del Movimento 5 Stelle, “Tutelare la salute dal business della malattia”, http://www.youtube.com/watch?v=jMRXiPVVXC4 ;

gli articoli archiviati sul sito della Fondazione Hans Ruesch per una Medicina Senza Vivisezione (www.hansruesch.net), in particolare “Vivisezione: un po' di chiarezza sul dibattito in corso”, http://www.hansruesch.net/articoli/unpodichiarezza.pdf);

il libro Scienziati e laici, Lulu.com, giugno 2015 (http://www.lulu.com/shop/marco-mamone-capria/scienziati-e-laici/paperback/product-22227632.html).

La risposta della CE del 3 giugno a cui si è fatto riferimento è disponibile in: http://ec.europa.eu/environment/chemicals/lab_animals/pdf/vivisection/it.pdf .

Sui poteri del Mediatore Europeo:

http://www.ombudsman.europa.eu/media/it/default.htm

Sull'inesistenza di una procedura di ricorso nel caso che la CE si rifiuti di soddisfare le richieste di una ICE:

http://ec.europa.eu/citizens-initiative/public/faq#submission






Inserito: 20 giugno 2015; minime revisioni: 21, 23 giugno, 24 luglio

Fondazione Hans Ruesch per una Medicina senza Vivisezione

www.hansruesch.net